Incipit alle storie

“Il Castello” tra file di mattoni: arti miste.

Un libro può cambiare il mondo?

A detta di Jorge Méndez Blake (e mia), si. Quest’ultimo lo dimostrò nel 2007, con “El Castillo” (Il Castello, di Franz Kafka): una performance composta da un muro, disconnesso ed imperfetto, a causa di un libro posizionato tra il pavimento e la prima fila di mattoni. Questo a riprova del fatto che una singola mente pensante avrebbe potuto cambiare un intero sistema, se non addirittura il mondo intero.

Jorge è riuscito ad unire due materie di enorme importanza, le arti visive e la letteratura, non solo in “Il Castello”, ma anche in altre opere, come “Vita contemplativa”, in cui il libro, in questo caso, viene posizionato aperto, capovolto, sopra ad un mobile altezza uomo, che da l’idea, a chi lo osserva, che sia in attesa di essere continuato, capito, che sia in attesa di una svolta, in attesa di qualcosa o qualcuno che riesca a leggere un’altra mente, altre parole, altre storie.”Vita contemplativa” contempla il viaggio nel presente ed una fine certa, ma non imminente.

Il Castello, di Franz Kafka.

“Il Castello”, di Franz Kafka, rimase un romanzo incompiuto. Difatti questo mistero del Castello rimane acceso fra dibattiti assortiti e amare delusioni. Borges disse, a riguardo, che Kafka non portò a termine i suoi romanzi, “perché era fondamentale che fossero interminabili”.

All’interno del libro, il Castello (da ciò che ho letto in giro, perché non ho ancora avuto modo di leggerlo), viene visto come un’entità irraggiungibile, seppur tanto agognata, come se fosse materia astratta: con pieno potere decisionale, ma confusa ed “intoccabile”.

Non voglio scriverne la trama, non l’ho mai avuto tra le mani (ma rimedierò presto), piuttosto vi lascio un link che mi è stato utile per capirne di più: https://pistolato.wordpress.com/2008/03/09/il-castello-di-kafka/

Arti miste.

In questo articolo non voglio parlare di Méndez come unico artista, o delle sue opere, come uniche creazioni, ma più delle performance in generale, prendendo spunto da personaggi noti, che ne hanno allargato le vedute.

Ho preso Méndez perché lo trovavo un buon pretesto per iniziare questo articolo, con la fusione della mia arte (anche se non mi classifico ancora un’artista) e dell’arte di cui vi andrò a parlare nella storia che verrà.

Se si parla di performance, cioè dell’arte senza l’opera d’arte concreta, si parla anche di Marina Abramović, una performer ed un’artista che nonostante, inizialmente, abbia avuto non poche difficoltà ad entrare in un mondo che le apparteneva, è riuscita a studiare il proprio corpo e la propria mente, segnando una svolta, attraverso, non solo se stessa, ma anche grazie ad un pubblico che era in costante simbiosi con lei, con le emozioni che scaturiva, aprendo, loro, la mente e nuove realtà (se volete saperne un po’ di  più, cliccate qua, non lo ripeterò due volte: https://www.giadacarrotbadari.it/attraversare-i-muri-marina-abramovic-2/).

Questa sua lotta, nell’epoca dell’arte contemporanea, che continua ad essere motivo di espressione ed ha visto non poche trasformazioni avvenire nel corso del tempo (chiedetelo ad Achille Bonito Oliva), partendo da una serie di nuove arti, che di nuovo hanno solo il modo nel quale vengono trasmesse ed in comune il passato e la memoria, ha permesso a tante altre persone di capire su che lato della stanza stare.

Dal sogno alla realtà: le mie parole.

Mi sono imbattuta in uno di loro, che è anche colui che accese la curiosità, in me, ed ho capito, da lui, ma anche da me, dopo qualche conversazione fatta, quanto sia difficile portare avanti un sogno che concerne con l’arte, di ogni genere; quanto sia difficile partire da zero in un Paese dalle menti e dalle braccia chiuse; quanto sia difficile farsi strada, in una realtà, subito, sconosciuta, insidiosa e cattiva, con i più deboli; quanto sia difficile portare a casa qualcosa, se non si ha un secondo lavoro che te lo permette; quanto sia difficile mantenere in alto un progetto, con queste circostanze, perché l’arte può darti tutto, ma toglierti anche tanto: la pazienza, la costanza, la consapevolezza del vuoto, la voglia di continuare a sperare. “Eclipse” è la rinascita, vista con i miei occhi, di quest’uomo. Un’opera a cui ci si dedicò molto, ma che vedrete all’interno della storia che pubblicherò verso la fine del mese.

Dicevamo, mi sono imbattuta in uno di loro, perché credo che a volte ci sia una connessione particolare tra le anime in una continua ed estenuante, ma talvolta soddisfacente, corsa verso un qualcosa a loro, e solo a loro, nota, ed ho appurato che è davvero faticoso rimanere in un limbo perfido, tra una realtà che ti vuole imprigionare ed un sogno che ti vuole libero.

Conclusioni.

Per concludere, in questo preciso momento mi viene in mente un motto utilizzato negli ambienti politici dell’estrema destra, che mi dissero quando all’inizio (un pò ancora adesso) non riuscivo a reggere il ritmo di articoli da pubblicare, cose da fare, persone da conoscere e luoghi in cui andare: “Boia, chi molla”. Ed è per questo che vorrei raccontarvi la sua storia, perché non ha mai mollato, ed anche tutte le persone che credono in qualcosa, non dovrebbero farlo. Non mollate.

Per arrivare direttamente alla storia, vi lascio il link: https://www.giadacarrotbadari.it/unoscurita-avida-capitolo-2/

Esibizione ed opera, in alto, di Salvador Dalì.